Femvertising: non solamente “marketing rosa”
Negli ultimi anni, il mondo della comunicazione ha offerto agli amanti dei neologismi nuovi termini: uno di quelli di nuovo conio è il femvertising, con il quale si fa riferimento all’utilizzo della donna nella pubblicità, una figura che viene rappresentata come modello forte, intraprendente e indipendente.
Il termine Femvertising nasce nel 2014, nel corso dell’evento Adweek a New York, moderato da Samatha Skey, CEO dell’azienda di media digitali SHEmedia: deriva dall’unione tra feminism e advertising, e si concentra sulla pratica dell’inserimento di immagini e messaggi volti a scardinare gli stereotipi di genere, ed è una tendenza che viene identificata all’interno del “femminismo di quarta ondata”, che fa dei social networks la sua arma principale. I movimenti femministi, infatti, si sono inseriti negli ultimi anni anche all’interno dei media digitali, per poter prendere posizione contro le campagne pubblicitarie che assegnano specifici ruoli e comportamenti a uomini e donne, avvalendosi di stereotipi e sessualizzando il corpo femminile.
Storicamente, già con le prime pubblicità televisive degli anni ’50, la donna viene vista o come casalinga borghese o come mamma, concentrando quindi la associazione a prodotti come elettrodomestici, detergenti per la casa, cibo. Con il tempo però, molte campagne promozionali tendono a sfociare in stereotipi sessisti, riflettendo la società maschilista di quegli anni. Dagli anni Settanta, la figura della donna viene sempre più associata alla sensualità, alla tentazione ed alla lussuria: lo scopo della pubblicità è attirare l’attenzione maschile, oggettivizzandola. Donne seducenti, sempre meno vestite, appaiono ovunque, senza distinzione di prodotti (anche se vi è una notevole crescita nell’abbinamento “alcool – seduzione”), sino agli anni ’80 quando il corpo femminile e la forma fisica diventano ancor più centrali nell’advertising e nella società: la depilazione, il trucco, la moda, la palestra e i prodotti dietetici sono dei punti cardine, e il corpo snello, magro, privo di imperfezioni è il modello dominante delle campagne di questi anni.
Bisogna aspettare la fine degli anni Ottanta per avere un primo piccolo cenno della emancipazione rosa: per la prima volta le donne compaiono sul posto di lavoro, vestite al maschile e non più sole, ma anche in compagnia dell’altro sesso: la donna è libera, sia da stereotipi che da strumentalizzazioni maschili, e nel corso degli anni ’90 è sempre meno vista come casalinga o lavoratrice, ma come personaggi “a tutto tondo”. Ma non siamo usciti ancora del tutto, purtroppo, dalla sua generalizzazione: difatti, molte pubblicità dei primi anni 2000 sembrano tornare a riprendere alcuni stereotipi di genere degli anni precedenti, sessualizzando la donna e prevalicando una concezione di “possesso” maschile, soprattutto nella moda e nella cosmesi per uomo. Questo sino all’attualità, dove l’inclusività e la parità di genere fanno sì che la donna diventi parte della comunicazione, e non il centro di essa: qui vi troviamo i valori e gli ideali.
Ed è proprio da qui che nasce la femvertising, per valorizzare i brand che vogliano sfidare le norme sociali associate anche alla razza, all’orientamento sessuale e alle credenze religiose: sarà proprio la stessa fondatrice, Samatha Skey, ad istituire, nel 2015, i Femvertising Awards, una competizione per premiare quei marchi che sfidano le norme di genere inserendo nella loro comunicazione messaggi pro-famale.
A questa pagina potete trovare i vincitori delle edizioni del concorso.